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Xinjiang. Testa di ponte di Pechino in Asia centrale: competizione e cooperazione energetica

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A rendere straordinariamente rilevante il Xinjiang è la sua dimensione geopolitica: protesa verso l’Europa e il Medio Oriente, la regione confina ad occidente con le tre repubbliche centrasiatiche del Kirghizistan, Kazakistan, Tagikistan e con l’India, il Pakistan e l’Afghanistan, mentre a nord con la Russia e la Mongolia e a sud con il Tibet.

La salvaguardia del limes del Xinjiang è il nodo cruciale della pianificazione strategica cinese in prospettiva della conservazione dell’unità e dell’integrità statale, che viene preservata attraverso l’attivazione di politiche governative e l’istituzione di organizzazioni a carattere multilaterale volte al sostegno della sicurezza regionale.

Su quel limes nord-occidentale sono proiettate le ambiziose mire cinesi sulle ricchezze energetiche centrasiatiche, medio-orientali e sui corridoi di accesso al mercato europeo.

Fin dal collasso dell’Unione Sovietica l’Asia Centrale ha accentrato gli interessi e le ambizioni delle grandi potenze mondiali. Come affermato da Marketos:

La rivalità tra gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Turchia, l’Iran, e le altre potenze regionali fin dai primi anni novanta si è focalizzata su due dimensioni – considerazioni strategiche e interesse per gli idrocarburi […] Da contrasto, c’è stata cooperazione nella competizione sulle risorse energetiche”.

Gli importanti bacini di idrocarburi del Mar Caspio, soprattutto di petrolio e di gas naturale, sono l’obiettivo sostanziale degli orientamenti strategici in Asia Centrale. È sufficiente riflettere su alcuni dati per comprendere il valore geoeconomico dell’area: il 21,4 % delle riserve di petrolio mondiali e il 45 % delle riserve di gas naturale provengono da Iran, Azerbaijian, Kazakistan, Turkmenistan, Russia e Uzebekistan.

Con la sospensione della cessione di gas all’Ucraina nel gennaio 2006 ad opera della Russia, il potenziale delle riserve di idrocarburi della regione centrasiatica diviene fondamentale per la sicurezza energetica dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Mentre l’Unione Europea si accorda con il Turkmenistan per la realizzazione del gasdotto Nabucco, gli Stati Uniti lusingano l’Uzbekistan, il fianco debole della Organizzazione di Shanghai per la cooperazione, la cui aspirazione egemonica regionale è soppiantata dalla predilezione russa per il Kazakistan.

L’Organizzazione di Shanghai è stata costituita con il proposito di conciliare la competizione per le risorse con la cooperazione per lo sfruttamento delle stesse, la promozione dell’energy club, su proposta del Presidente Putin al Summit di Shanghai della SCO (2006), nasce proprio per soddisfare questo intento. Putin affermò infatti di essere “convinto che il dialogo energetico, l’integrazione dei nostri concetti nazionali di energia, e la creazione di un energy club darà inizio ad una ulteriore cooperazione”.

Come sostiene Germanovich anche nel successivo Summit del 2007 a Bishkek “la sicurezza energetica e la cooperazione energetica […] sono state il più importante argomento focale di interesse della riunione”.

Le vaste risorse energetiche idroelettriche del Tajikistan e Kirghizistan, quelle di idrocarburi del Kazakistan, Russia, Uzbekistan e Cina, costituiscono un patrimonio per la SCO, consentendole di divenire al contempo fornitrice di energia a livello internazionale e fruitrice a livello regionale.

Rashid Gulov il vice ingegnere tecnico del più importante ente fornitore di energia elettrica del Tajikistan, l’ Open Stock Holding Company Barki Tojik, ha dichiarato che:

Se tutti i paesi membri della SCO e quelli che starebbero per unirsi ad esso –Iran, Pakistan, e India- unissero i loro sforzi per creare la SCO Energy Commonwealth, questo diventerebbe la più potente alleanza energetica del mondo. E questo commonwealth molto preferibilmente dovrebbe essere considerato un’alternativa all’OPEC”.

Già dal 2004 è stata avviato un piano di cooperazione tra Paesi consumatori di energia quali la Cina, il Tajikistan e il Kirghizistan e Paesi produttori quali la Russia, l’Uzbekistan e il Kazakistan.

Alcuni analisti occidentali vedono questo energy club come una minaccia sottolineando che i Paesi membri della SCO controllano il 23 % delle riserve di petrolio del mondo e il 55 % delle riserve mondiali di gas naturale. In realtà più che puntare alla costituzione di un cartello in prospettiva anti-occidentale la cooperazione in ambito energetico mira a consolidare il ruolo di ogni singolo Paese membro della Organizzazione a livello regionale, assicurando la soddisfazione di interessi comuni o individuali. Così nel 2006 e nel 2007 si consolidano le collaborazioni a livello bilaterale tra i membri dell’Organizzazione di Shanghai, a discapito della dichiarata propensione alla cooperazione multilaterale.

La Cina investe nel settore per l’estrazione e l’esplorazione off-shore di petrolio in Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan, e acquista nel 2005 la PetroKazakhstan per 4,18 miliardi di dollari. Il progetto più ambizioso è la costruzione di un oleodotto lungo 3000 chilometri che dal Kazakistan arriverà fino alle coste orientali della Cina, attraversando per 240 chilometri il Xinjiang, al quale si accompagna la realizzazione del gasdotto che collega il Turkmenistan alla Cina ed entrerà in funzione nel 2011.

È infatti il Xinjiang lo spazio geopolitico da sfruttare per incrementare i contatti con le repubbliche centrasiatiche.

In Pakistan, probabilmente futuro membro della SCO, è stata costruita una strada di collegamento all’Afghanistan per consentire ai cinesi di raggiungere via terra i Paesi dell’Asia Centrale per avere garantite le esportazioni di prodotti cinesi.

In realtà il bacino di fruizione della produzione cinese non è solamente quello centrasiatico, la Central Asia Regional Economic Cooperation (CAREC), un’organizzazione che si occupa della cooperazione economica regionale, si è impegnata per la realizzazione di quello che Jean ha definito un “corridoio paneuropeo” costruito allo scopo di facilitare il commercio terrestre con l’Unione Europea.

La CAREC, che promuove la collaborazione fra Cina, Mongolia, Afghanistan, Kazakistan, Kirghizistan, Azerbaijian, Uzbekistan, Tajikistan, dalla quale è esclusa la Russia, vede accrescere la propria rilevanza economica rispetto alla Sco, favorendo la preminenza egemonica della Cina nella regione a svantaggio dello storico monopolio russo.

Allo stesso modo la Cina ha investito 200 milioni di dollari nella costruzione di una strada che connette Karachi a Gwadar, nel Baluchistan, nella costa sud-occidentale del Pakistan, luogo in cui secondo gli accordi sino-pakistani è stato costruito un porto sull’Oceano Indiano, in attivo già dal 2008.

La posizione strategica del porto di Gwadar affacciato sul mar arabico, con il Golfo Persico ad occidente e il Golfo di Oman a sud-est, faciliterà le esportazioni cinesi e le importazioni di risorse energetiche dall’Asia Centrale, grazie anche alla riabilitazione dei 616 chilometri della strada del Karakoram che congiunge il Xinjiang con il Pakistan.

Il Xinjiang è la “più grande riserva di petrolio di Pechino”, nel 2008 è stato il secondo produttore nazionale di oro nero per un totale di 27,4 milioni di tonnellate di greggio. Le riserve di petrolio di Tarim, Tuha e Kelamayi soddisfano un quinto della domanda interna cinese e si stima che nel 2010 si giungerà a produrre circa 35 milioni di tonnellate.

Xinjiang ha anche ricche riserve di gas per una capacità produttiva totale di circa 10 trilioni di metri cubi. Petrochina sta costruendo un gasdotto di 4000 chilometri per il trasporto diretto dalle riserve del Tarim fino alle coste orientali del Paese.

Il profitto ricavato dall’estrazione del gas e del petrolio per le imprese del Xinjiang è stato nel 2005 di 29,1 miliardi di yuan. L’attività gestita da aziende pubbliche, quali Sinopec o Chinese National Petroleum Corporation (CNPC), che incassano la quasi totalità degli introiti, pone delle sfide riguardo l’odierna problematica delle quote da riservare all’amministrazione autoctona.

Negli ultimi anni l’ingente incremento del prezzo del petrolio ha incanalato l’interesse per l’approvvigionamento energetico verso un maggiore e più conveniente sfruttamento delle riserve carbonifere, di cui il Xinjiang possiede il 30% del totale nazionale con una produzione di 1,64 trilioni di tonnellate annue.

Tenuto conto che il fabbisogno energetico cinese è sostenuto per oltre il 70% dallo sfruttamento del carbone, le riserve del Xinjiang sono essenziali per il mantenimento di così alti tassi di crescita economica, ma soprattutto per acquisire l’autosufficienza energetica.

La singolare dimensione territoriale del Xinjiang in ragione della sua posizione geografica, stretta tra sovrastanti montagne e vasti bacini idrografici, rende la regione una potenziale estesa riserva di energia eolica. L’attenzione manifestata nel IX Piano quinquennale (2005) alla questione dell’efficienza energetica, tesa al risparmio e all’approvvigionamento autarchico delle risorse, ha evidenziato l’urgenza di incentivare la produzione di energie rinnovabili e specificamente l’energia eolica da convertire in energia elettrica. Le nove zone più fornite di centrali eoliche, perché più soggette al vento, del Xinjiang individuate dal Xinjiang Weather Berau (Daban, la zone occidentale di Tulufan, Baili, l’area meridionale e settentrionale della città di Hami, il versante occidentale del bacino della Zungaria, il fianco ovest del fiume Ergis, la zona intorno al Passo di Alataw e Lop Nur) hanno una capacità produttiva pari a 910 miliardi al chilowattora.

Il conseguimento dell’autosufficienza energetica sembra costituire ad oggi l’orientamento prevalente nella pianificazione strategica cinese, anche se il fabbisogno energetico necessario per lo sviluppo economico del Paese di Mezzo è superiore alle risorse nazionali disponibili.

Per tale ragione l’obiettivo del governo è incentivare l’estrazione e l’esplorazione delle riserve nazionali accompagnandola ad una intensificazione delle relazioni con i Paesi produttori di petrolio, gas e carbone.

Questo spiega il consolidamento dei rapporti bilaterali con i paesi africani quali Angola, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e con gli stati membri della SCO, soprattutto con il Kazakistan grande produttore di petrolio e con la Russia primo paese produttore di gas, gestore di Gazprom e Rosneft.

Se da un lato esiste una competizione tra Russia e Cina per il controllo delle riserve energetiche dell’Asia Centrale, dall’altro quei due stessi Paesi cooperano per la gestione dell’area secondo una prospettiva esclusivista finalizzata a neutralizzare qualsivoglia mira espansionistica di Stati Uniti e Giappone.

L’oscillazione tra competizione e cooperazione produce una falla negli equilibri della SCO, favorendo l’indeterminatezza delle relazioni.

Il fallimento degli accordi stipulati nel febbraio 2009 tra la Russia e la Cina in ordine alla costruzione di un gasdotto per il trasporto annuale di 80 miliardi di metri cubi di gas dalla Siberia alla Cina, è un elemento rivelatore delle problematicità della cooperazione energetica promossa dalla SCO. Il potenziale delle riserve del Xinjiang è una garanzia per la sicurezza energetica della Cina, è un’opportunità per autonomizzarsi dai monopolisti del gas e del petrolio.

Cina-Stati Uniti: partners e competitors

In una personale intervista rivolta al Jiang Xiyuan del Shanghai Institutes for International Studies,

Xiyuan dopo aver laconicamente premesso che “le relazioni sino-statunitensi sono sempre più strette […]” dichiara con una concisione poco ridondante tanto più illuminante che “i due paesi sono simultaneamente partners e competitors”.

Questa è una prima soluzione interpretativa della grande strategia cinese dopo l’11 settembre: la collaborazione tra gli Stati Uniti e la Cina oscilla tra stimolanti accelerate ed improvvise frenate, tra interessi comuni e competizione per l’affermazione di ambiziosi progetti particolaristici.

La cooperazione sino-statunitense è rigorosamente strategica, risponde al comune progetto volto a contrastare l’eventualità di un accentramento del consenso ad opera delle organizzazioni terroristiche internazionali, riducendo la loro influenza nell’area mediorientale e centrasiatica, ma dal punto di vista cinese anche a contenere il dissenso e le spinte autodeterministe uigure nel Xinjiang.

La cooperazione nel settore economico che ha capitalizzato un valore di 409 miliardi di dollari nel solo 2008, ha contribuito sostanzialmente al consolidamento dell’interdipendenza tra le due potenze mondiali. Gli Stati Uniti dipendono dalla Cina che è oggi il detentore di titoli di stato statunitensi e secondo maggior partner commerciale degli Stati Uniti; così l’economia cinese dipende dagli investimenti statunitensi.

Elemento vincolante per i due Paesi è la condivisione della lotta contro il terrorismo transnazionale, iniziata nel settembre 2002 attraverso l’Ordine Esecutivo 13224 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti con la segnalazione dell’East Turkestan Islamic Movement/ETIM nella lista delle organizzazioni terroristiche legate ad al-Qaida.

La designazione dell’ETIM quale organizzazione terroristica, come confermato da una dichiarazione del Dipartimento del Tesoro statunitense, “fu richiesta dai governi dell’Afghanistan, del Kyrgyzstan, degli Stati Uniti e della Cina” nell’ambito della grande cooperazione antiterrorismo in Asia centrale. Mentre la Cina esercitava pressione sugli Stati Uniti affinché inserisse l’ETIM nella lista delle organizzazioni terroristiche, gli Stati Uniti cercavano di lusingare i cinesi e ottenere il loro sostegno o se non altro un loro tacito assenso in sede ONU in prospettiva di un programmato attacco all’Iraq.

Il timore dell’amministrazione Bush era che la Cina potesse decidere di adottare quelle che Robert Pape definisce “misure di soft-balancing”, ad esempio utilizzando il proprio diritto di veto in un’istituzione internazionale quale è l’ONU per avversare o anche solo ritardare ogni tipo di iniziativa unilaterale americana.

Gli Stati Uniti hanno sostenuto attivamente la campagna di criminalizzazione dell’ETIM promossa dalla Cina, accreditando la tesi del suo legame con al-Qaida e inserendo il movimento tra le organizzazioni terroristiche più minacciose. Tuttavia la cooperazione sino-statunitense in ambito antiterroristico non si è esaurita nella sola designazione dell’ETIM nelle liste americane.

All’accoglimento da parte della Cina nel febbraio 2002 della richiesta statunitense di istituire un ufficio del FBI con sede nell’Ambasciata degli Stati Uniti a Pechino (attivo dal settembre 2002) per favorire la coordinazione dell’attività investigativa antiterroristica e di intelligence, si è accompagnato nello stesso anno l’arresto di ventidue uiguri, alcuni fermati in Afghanistan, mentre altri in Pakistan. Dopo una prima detenzione nel carcere di Kandahar gli uiguri vennero condotti a Guantanamo Bay dove nel settembre 2002 furono, secondo la loro diretta testimonianza, sottoposti a lunghi interrogatori da agenti cinesi. All’indomani dell’11 settembre 2001, anche i Paesi della neonata SCO supportarono le operazioni militari in Afghanistan.

La Cina mise a disposizione degli Stati Uniti le informazioni carpite dai servizi di intelligence nazionali, temendo per le possibili derive terroristiche in Xinjiang e per quel confine nord-occidentale condiviso proprio con l’Afghanistan e il Pakistan.

Tuttavia acconsentire agli Stati Uniti di accedere ad uno spazio geopolitico di considerevole valore strategico e geoeconomico come l’Asia centrale, segnava un vuoto e una fragilità effettiva della struttura della SCO.

D’altra parte è stata proprio la competizione con gli Stati Uniti per il controllo dell’Asia centrale a determinare l’istituzione di un’organizzazione per la cooperazione regionale come la SCO, che, come sostiene Andornino, è improntata a “preservare un elevato grado di autonomia rispetto all’Occidente”.

Probabilmente, come ha affermato Rumer, il nuovo assetto di sicurezza in Asia Centrale costituitosi dal 2001 al 2005 ha favorito gli Stati Uniti, che hanno accresciuto la propria influenza nell’area a detrimento della SCO e in particolare della Cina che guida l’organizzazione.

Il summit che il 5 luglio 2005 si è tenuto ad Astana, in Kazakistan, è sintomatico di questa decisa inversione di tendenza della SCO, che ha ribadito in quella occasione il diniego dell’eteronomia della gestione della sicurezza nell’area, che fino a quel momento aveva assecondato la penetrazione degli Stati Uniti.


*Maria Dolores Cabras è laureata in Relazioni internazionali (Università di Firenze)

Fonti:

    ANDORNINO G. B., Dopo la muraglia: la Cina nella politica internazionale del XXI secolo, Vita e Pensiero, Milano 2008.

BENSON L., The Ili Rebellion: The Moslem Challenge to Chinese Authority in Xinjiang 1944-1949, M.E. Sharpe, Armonk, New York 1990, p. 43

BERGÈRE M. C., La République populaire de Chine de 1949 à nos jours, Paris, Armand Colin, 1989 (tr. it. di Giorgia Viano Marogna, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, Bologna, il Mulino, 2000

CASERTANO S., Cina: Xinjiang tra petrolio e sommosse, in Limes. Rivista italiana di geopolitica, 11 luglio 2009, in: http://temi.repubblica.it/limes/cina-xingjiang-tra-petrolio-e-sommosse/5647

CINDY LI, Wind Energy in Xinjiang, China Program of Security Institute, in China Security, in: http://www.wsichina.org/%5C13ener.html

CONSTITUTION OF THE PEOPLE’S REPUBLIC OF CHINA, (Adopted on December 4, 1982), articolo 30; Sezione 6 (artt. 112-122), in http://english.people.com.cn/constitution/constitution.html.

DILLON M., Xinjiang: China’s Muslim Far Northwest, Routledge-Taylor & Francis Group, 2003

EMBASSY OF THE PEOPLE’S REPUBLIC OF CHINA IN THE FEDERAL DEMOCRATIC REPUBLIC OF NEPAL, Establishment, Development and Role of the Xinjiang Production and Construction Corps, 27/10/2004, in http://www.fmprc.gov.cn/ce/cenp/eng/Features/zfbps/xjlshfz/t167386.htm

GERMANOVICH G., The Shanghai Cooperation Organization: A Threat to American Interests in Central Asia?, The China and Eurasia Forum Quarterly, vol. 6, n. 1, in: www.isdp.eu/files/publications/cefq/08/gg08scoamerica.pdf.

GLADNEY D. C., The Chinese Program of Development and Control 1978-2001, in STARR S.F. (a cura di), Xinjiang: China’s Muslim Borderland, Central Asia-Caucasus Institute, M.E. Sharpe, Armonk N.Y. 2004

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